Carini, delineata l’immagine del capomafia Antonino Di Maggio. “E’ tirchio”

Era definito col braccino corto, dai suoi affiliati il boss della famiglia mafiosa di Carini Antonino Di Maggio. Se ne sarebbe lamentato il suo factotum Vincenzo Passafiume. Un dettaglio che emerge dall’inchiesta che, due giorni fa, ha portato ai 9 arresti eseguiti dalla Squadra Mobile di Palermo che ha sgominato l’intero clan. Di soldi Di Maggio ne avrebbe avuti. Come  riportato oggi sul Giornale di Sicilia, nel 2008, nel suo giardino di casa, vennero ritrovati 14 barattoli con circa mezzo milione di euro e 2.200 dollari, oltre a gioielli e pietre preziose.   Fu il nipote pentito Nino Pipitone a svelare nel marzo del 2017 gli affari dello zio. «Tra gli investimenti – mise a verbale il collaboratore di giustizia – ricordo che comprò un villino vicino a casa sua che poi adibì ad esercizio commerciale di carnezzeria. Aveva acquistato dei magazzini a Carini, nella zona di via Sturzo. Ha inoltre acquistato un’estensione di terreno a Villagrazia di Carini (all’entrata del paese, vicino alla statale) che aveva comprato da un convento di monaci di Palermo, pagato circa 500/600 mila euro in una trattativa che fu portata avanti anche da Totò Amato;  un panificio di Villagrazia di Carini, vicino alla piazzetta, che poi aveva affittato. Uno dei lotti della lottizzazione Bottino». L’investimento negli immobili di proprietà della Congregazione delle suore collegine della Sacra famiglia (con sede a Palermo, in via Giovanni Evangelista di Blasi) sarebbe stato avviato prima del 2006 e Di Maggio, attraverso Salvatore Amato, sarebbe riuscito a stipulare un preliminare di vendita, versando denaro e titoli. Solo che proprio nel 2006 il boss era stato arrestato nell’operazione «Gotha» e l’affare sarebbe dunque andato a monte. Per la Procura, però, appena tornato libero il boss avrebbe ripreso in mano la situazione e, sfruttando un prestanome, avrebbe cerato di recuperare il denaro versato per il preliminare. Di questo il suo braccio destro Vincenzo Passafiume si sarebbe lamentato con un trapanese, raccontandogli come sarebbe riuscito a procurare soldi per conto del boss che, però, alla fine gli avrebbe lasciato solo le briciole. Da qui il suggerimento dell’altro di non mettere le somme «a tavolino», lasciando al capomafia il diritto di dividere a suo piacimento, ma di trattenere a monte il denaro per sé. L’intercettazione risale al primo febbraio del 2017.  Passafiume avrebbe pure mediato  ed evitato ad una persona che stava installando delle slot machine a Carini di dover versare 700 euro al mese a un trapanese. In cambio, però, in quel caso, il boss Antonino Di Maggio, non avrebbe voluto soldi, ma avrebbe preteso, infatti, un vecchio jukebox.  Dall’inchiesta sono emerse pure tensioni che Di Maggio avrebbe avuto con Fabio Daricca a cui aveva ordinato l’incendio di un auto, mentre per errore, la terza persona a cui lo stesso si rivolse per l’esecuzione del raid, ne fece andare a fuoco 4. Il boss si arrabbiò molto con Daricca minacciando di cacciarlo insieme alla sua famiglia dal territorio, ma l’affiliato, offeso, difese le proprie ragioni e lo invitò a riflettere sulla propria rettitudine e fedeltà nei confronti di Cosa Nostra dimostrata negli anni.  Gli investigatori hanno accertato che pochi giorni prima di questo aspro scontro, l’11 febbraio, era stata presentata una denuncia per un danneggiamento a seguito di incendio, davanti all’abitazione di un’anziana, in via San Lorenzo, a Carini. Altri due esposti, per il rogo di altrettante auto, erano stati presentati da altri cittadini. Un riscontro agli elementi che emergono dalle intercettazioni e che farebbero dunque di Di Maggio e Daricca i presunti mandanti dell’episodio, rimasto sinora senza colpevoli. Altro dettaglio rilevante emerso dalle intercettazioni è che dopo la decisione di collaborare con la giustizia di Antonino Pipitone, Antonino Di Maggio stava pensando di darsi alla macchia. Vincenzo Passafiume gli avrebbe offerto di organizzare e coprire la sua eventuale latitanza. Ma ad opporsi a questa scelta sarebbero state la moglie e la figlia di Di Maggio, convincendo il congiunto a desistere dalla tentazione.  Nell’ordinanza del gip Clelia Maltese emerge l’agitazione che aveva scatenato, il 18 novembre del 2016, l’arresto di Di Maggio per gli omicidi di Giuseppe Mazzamuto e Antonino Failla, avvenuti il 26 aprile del 1999. Passafiume, ma anche Salvatore Amato, avevano capito che Pipitone stava raccontando fatti anche molto vecchi,

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