Il pentito Di Matteo: “la strage di Capaci non fu solo opera di Cosa Nostra”

Nega l’esistenza di soggetti estranei a Cosa nostra nelle fasi preparatorie ed esecutive della strage di Capaci, racconta il suo incontro con Paolo Bellini, vicino all’eversione destra e ad ambienti dei Servizi. E parla delle fibrillazioni delle cosche dopo la decisione di assassinare Giovanni Falcone: alcuni boss sarebbero stati in disaccordo col progetto di Totò Riina.

Nell’aula bunker di Rebibbia oggi, al processo bis per l’eccidio del 23 maggio, costato la vita a Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e ai tre agenti della scorta, è la volta del pentito Santino Di Matteo.

Un collaboratore di giustizia che ha pagato cara la scelta di raccontare i segreti di Cosa nostra: l’ex boss Giovanni Brusca ordinò il sequestro del figlio, il piccolo Giuseppe che venne poi strangolato e sciolto nell’acido dopo due anni di prigionia.

Al processo, che si svolge davanti alla corte d’assise di Caltanissetta, sono imputati i boss Salvino Madonia, Renzino Tinnirello, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino. Di Matteo ha raccontato di avere saputo solo in un secondo momento che l’esplosivo, fattogli avere da Brusca, sarebbe stato usato per uccidere Falcone.

Il pentito ha anche ricordato di avere portato il tritolo a Capaci, sul luogo dell’attentato, per provare i tempi dell’esplosione rispetto al passaggio delle auto sull’autostrada. A far conoscere Bellini – secondo i pm, protagonista di una trattativa parallela a quella portata avanti da pezzi dello Stato coi clan – sarebbe stato Nino Gioè, boss stragista poi morto suicida. Di Matteo ha confermato che Bellini si era offerto di adoperarsi per ottenere attenuazioni del 41 bis per alcuni boss.

In cambio, la mafia avrebbe dovuto far ritrovare alcune opere d’arte rubate. Infine il collaboratore ha rivelato che non tutta Cosa nostra sosteneva il progetto stragista di Riina e che alcuni capimafia si mostrarono preoccupati per le possibili reazioni dello Stato.

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