Carini, nuovi dettagli sul blitz antimafia che ha portato a 9 arresti

Stando alle accuse mosse dai pentiti, Gaspare Pulizzi, Francesco Briguglio e Antonino Pipitone, il boss Antonino Di Maggio, originario di Torretta,  era «gestore della cassa della famiglia mafiosa di Carini, già a partire dal 2000 e senza alcun obbligo di rendicontazione». La prima volta venne arrestato 35 anni fa e viene considerato il capoclan, sia per l’esperienza maturata sul campo che per le parentele. Di Maggio, infatti è sposato con Francesca Pipitone, sorella di Vincenzo, ritenuto l’ex reggente, Giovan Battista e Angelo Antonino, da sempre al vertice di una delle cosche più radicate del territorio. Particolari che emergono dall’inchiesta condotta dalla squadra mobile di Palermo che ieri ha portato a nove ordinanze di custodia cautelare in carcere e riportati oggi sul giornale di Sicilia. Due i grandi business gestiti dai mafiosi del posto: le estorsioni ai danni delle decine di imprese e depositi che ricadono nella zona industriale di Carini e il traffico di droga, del quale Di Maggio, assieme ad Alessandro Bono, coinvolto pure lui nella retata, vengono ritenuti personaggi di massimo spessore. Bono era comunque già in carcere, come d’altronde Di Maggio, accusato nel 2016 di avere partecipato al duplice omicidio di Giuseppe Mazzamuto e Antonino Failla, sequestrati e uccisi nell’aprile del 1999. Fedelissimo di Di Maggio è considerato Vincenzo Passafiume  che si sarebbe messo a disposizione per qualsiasi evenienza: smistare gli ordini del capo, ad esempio, e fissare appuntamenti, senza mai usare i cellulari, portarlo in giro con la macchina.   Passafiume era anche un visitatore affezionato del panificio gestito dalla famiglia Di Maggio a Villagrazia di Carini, e a quanto pare, avrebbe pure dissuaso  un commerciante che in zona voleva aprirne un altro, invitandolo ad andarsene altrove.  Il pizzo lo avrebbe imposto Totò, Amato.   In una intercettazione emerge che perfino un venditore ambulante di pesce doveva chiedere il permesso per piazzarsi in una certa strada. Per chi non si piegava, scattavano minacce, intimidazioni e incendi. Nell’inchiesta viene ricostruito però un solo episodio di taglieggiamento, grazie alle dichiarazioni di Gaspare Pulizzi e Antonino Pipitone,  ai danni degli imprenditori del settore tessile, Carmelo, Piero e Giovanni Bucalo. A occuparsene secondo i pentiti sarebbe stato proprio Totò Amato. «Pulizzi ha raccontato che Sandro Lo Piccolo   voleva che i Bucalo assumessero determinati soggetti nei nuovi negozi di Palermo e installassero dei maxi schermi pubblicitari nel punto vendita di via La Malfa, ragione per cui diede incarico allo stesso Pulizzi, per il tramite di Ferdinando Gallina, di dire anche ai Bucalo che se  avessero rilevato i negozi Baby Chic di viale Strasburgo avrebbero dovuto  assumere alcune persone nei negozi Miraglia da loro rilevati. Il giudice però precisa che le dichiarazioni non bastano per capire se queste richieste siano state davvero avanzate ai Bucalo e «soprattutto non provano che tali richieste siano state accolte».   I cellulari intercettati e le cimici piazzate nelle auto hanno permesso di tratteggiare decine di richieste di estorsioni, da poche migliaia fino a centinaia di migliaia di euro nei confronti soprattutto di aziende edili che stavano costruendo a Carini, Capaci ed Isola delle Femmine, ma non è stato possibile identificare le vittime dei taglieggiamenti. Secondo l’accusa di queste attività si sarebbe interessato pure Fabio Daricca,   assieme a Passafiume ed Amato. Questi ultimi due si occupavano pure di altri affari, come la compravendita di un terreno a Villagrazia di Carini, un’area dal valore di 600 mila euro il cui ricavato sarebbe finito nelle casse del clan. Si trova in contrada Milioti ed è di proprietà della Congregazione delle suore Collegine della Sacra Famiglia.  Dalle indagini sono emersi pure altri dettagli sulle teorie che il presunto factotum di Di Maggio, Vincenzo Passafiume, avesse sul fenomeno del pentitismo. Parlando con una persona che non risulta indagata, Passafiume avrebbe detto che a spingere i mafiosi a collaborare con la giustizia sia la fame, la disperazione e il fatto di sentirsi improvvisamente abbandonati. Inoltre, nel caso di Antonino Pipitone, attribuiscono le responsabilità alla madre dell’ex boss,  definendola   «una donna cattiva”.

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