Smantellato il mandamento mafioso del corleonese

Una nuova operazione antimafia ha decapitato i presunti vertici delle famiglie mafiose di Corleone, Chiusa Scalafani e Contessa Entellina. Decine di militari, unità cinofile e un elicottero dei carabinieri della compagnia di Corleone e del gruppo Monreale, coordinati dalla Direzione distrettuale Antimafia, hanno eseguito 6 fermi.

In manette sono finiti : Rosario Lo Bue, 62 anni, ritenuto il capo del mandamento mafioso di Corleone. Vincenzo Pellitteri, 63 anni, pastore pregiudicato, ritenuto capo della famiglia mafiosa di Chiusa Sclafani, i suoi figli Roberto, di 25 anni, operaio incensurato e Salvatore di 23 anni, operaio con precedenti penali alle spalle e il nipote Salvatore Pellitteri, 39 anni, anch’egli operaio pregiudicato. Infine Pietro Pollichino, 74 anni, ritenuto referente mafioso territoriale di Contessa Entellina.

Tutti, tra boss e gregari, sono accusati a vario titolo per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, danneggiamento e illecita detenzione di armi da fuoco. L’indagine è coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis, Caterina Malagoli e Gaspare Spedale.

I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa sviluppata in prosecuzione delle indagini denominate Grande Passo e Grande Passo 2, che tra il settembre 2014 ed il gennaio del 2015, avevano colpito gli esponenti delle famiglie mafiose di Corleone e Palazzo Adriano.

Le indagini hanno permesso di individuare il capo mandamento in Rosario Lo Bue, fratello di Calogero già condannato per il favoreggiamento di Bernardo Provenzano, nonché di ricostruire l’assetto del mandamento mafioso di Corleone (uno dei più estesi) ed in particolare delle famiglie mafiose dei Comuni di Chiusa Sclafani e Contessa Entellina. Rosario Lo Bue era già stato tratto in arresto nel 2008, nel corso dell’operazione “Perseo”, ma successivamente venne assolto in via definitiva in virtù dell’inutilizzabilità delle intercettazioni.

Dall’inchiesta, è’ emersa la caratura della figura di Lo Bue, capo assolutamente carismatico e fautore di una linea d’azione prudente, continuando così nella linea di comando lasciatagli da Bernardo Provenzano. Proprio questo suo modo di condurre le attività del mandamento ha creato non poche fibrillazioni in seno alla famiglia mafiosa di Corleone.

In particolare, Antonino Di Marco, tratto in arresto a settembre 2014, da sempre ritenuto vicino alle posizioni tenute dall’altro storico boss corleonese Salvatore Riina, in più occasioni aveva modo di lamentarsi del modo con il quale Rosario Lo Bue gestisse gli affari dell’organizzazione.

In questo contesto, nel corso dell’indagine, è emerso che Vincenzo Pellitteri e Pietro Paolo Masaracchia, capo della famiglia mafiosa di Palazzo Adriano, arrestato nel settembre 2014, nutrissero l’ambizione di costituirsi in una articolazione criminale autonoma, distaccando i propri territori di pertinenza ed influenza, ossia Palazzo Adriano, Chiusa Sclafani e Contessa Entellina, dal mandamento mafioso di Corleone, con la convinzione di creare un nuovo mandamento.

Queste divergenze tra soggetti riconducibili alle storiche famiglie Riina – Provenzano, si manifestavano nel momento in cui, i Lo Bue, tentavano invano di estromettere la famiglia Di Marco, dalla gestione di alcuni terreni al confine tra Monreale e Corleone, in località Tagliavia, estesi per circa due ettari. Per dirimere questa controversia e per ristabilire l’ordine, sarebbe stato richiesto l’intervento in prima persona di Antonina Bagarella, moglie di Totò Riina, la quale, con ferma autorevolezza, avrebbe rimproverato il capo mandamento.

Le attività investigative, hanno, dunque, fatto emergere che, ancora oggi, sussistono all’interno della consorteria criminale due anime contrapposte, l’una moderata storicamente patrocinata da Bernardo Provenzano e l’altra più oltranzista fedele a Salvatore Riina. Inoltre è stata nuovamente accertata la costante e rigida applicazione di una fondamentale ed inderogabile regola di cosa nostra, ovvero quella di garantire il sostentamento economico ai familiari degli affiliati detenuti, tra cui, in particolare, il capo indiscusso dell’associazione mafiosa, Totò Riina.

L’inchiesta, rivela, infatti, l’elargizione di contributi di solidarietà a favore dei familiari di Riina, in particolare in favore del figlio Giuseppe Salvatore, a cui Pietro Paolo Masaracchia avrebbe fatto pervenire, almeno in una circostanza, una somma di denaro. Altri particolari emersi, riguardano la famiglia mafiosa di Chiusa Sclafani. Pare, infatti, che nell’agosto del 2014 venne convocata una riunione di mafia nel corso della quale, Rosario Lo Bue, avrebbe nominato Vincenzo Pellitteri, reggente della locale famiglia mafiosa, in sostituzione del vecchio rappresentante Gaspare Geraci, oggi 89enne, e quindi impossibilitato a gestire in prima persona gli affari della cosca.

Nella gestione dell’organizzazione di Chiusa Sclafani, Vincenzo Pellitteri avrebbe contato del supporto dei figli Salvatore e Roberto e del nipote Salvatore Pellitteri. Per quanto riguarda Contessa Entellina, non operando sul territorio una vera e propria famiglia mafiosa, Pietro Pollichino, organicamente inserito nella famiglia di Chiusa Sclafani, si sarebbe occupato anche di quell’area. Per gli investigatori, l’associazione mafiosa ha continuato a mantenere saldamente in mano il controllo del territorio, esercitando una costante pressione sul tessuto sociale, attraverso i classici metodi intimidatori del danneggiamento di mezzi d’opera e degli incendi.

Infatti, sono tuttora in corso, indagini volte a verificare ulteriori attività illecite riconducibili agli indagati. Nel corso delle indagini è stato ricostruito anche il progetto di un omicidio, in danno di una vittima non ancora identificata, documentando chiaramente la disponibilità di un piccolo arsenale di armi nascoste in una località in via di individuazione. L’omicidio, sarebbe stato commissionato per 3.000 euro da due commercianti di Chiusa Sclafani a Vincenzo Pellitteri e Pietro Paolo Masaracchia, previa autorizzazione ricevuta da Gaspare Geraci. I preparativi per la commissione dell’omicidio, il cui movente è da ricondurre a dissidi privati intercorsi tra i committenti e la vittima, sarebbero stati interrotti dagli investigatori e dalla Magistratura il 23 settembre dello scorso anno, quando Masaracchia venne fermato nell’ambito dell’operazione antimafia Grande Passo, subito dopo aver eseguito un ultimo sopralluogo utile ad individuare il luogo preciso in cui si sarebbe dovuto commettere l’omicidio.

Nell’inchiesta, è emerso, infine, l’interesse di alcuni imprenditori romani, non identificati, del settore lattiero/caseario, alla raccolta del latte della zona dell’Alto Belice, da convogliare presso l’impianto sito in contrada Noce, di proprietà del Comune di Corleone, per il successivo trasporto a Roma e l’immissione nella grande distribuzione. Gli imprenditori capitolini si sarebbero affidati ad un collega del trapanese, Giovanni Impiccichè. Quest’ultimo, per favorire il gruppo di imprenditori romani, si sarebbe rivolto, probabilmente in virtù di pregressa conoscenza, a Pietro Campo, già condannato per associazione mafiosa, ritenuto esponente di vertice della famiglia mafiosa di Santa Margherita Belice, il quale a sua volta per realizzare il progetto, avrebbe deciso di avvalersi, sul territorio di interesse, di Vincenzo Pellitteri, reggente della famiglia mafiosa di Chiusa Sclafani.

A tal fine, Pellitteri, avrebbe pianificato un sopralluogo presso la struttura di contrada Noce, organizzando un incontro, il 3 settembre dello scorso anno, con il sindaco di Corleone Leoluchina Savona, suo fratello Giovanni Savona, Giovanni Impiccichè e Sebastiano Tosto, responsabile dell’area palermitana del comitato esecutivo del Distretto lattiero-caseario regionale, e fratello di Salvatore Tosto, già condannato per associazione mafiosa in quanto ritenuto vicino al boss Totò Riina. In verità, il progetto non venne mai realizzato, forse perché la struttura di contrada Noce è stata ritenuta sproporzionata rispetto al quantitativo di latte che nel circondario si sarebbe potuto raccogliere, per cui i costi di gestione sarebbero stati eccessivi e sconvenienti.

In ogni caso, per gli investigatori la vicenda avrebbe confermato nello sviluppo delle sue dinamiche, il vincolo associativo che lega gli indagati e la loro capacità di condizionamento territoriale ed ambientale.

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